domenica 30 novembre 2008

Scrivere

Scrivere è utile anche per farsi leggere, per esporre la propria idea, la propria esperienza,
che possa essere di aiuto,
non per presunzione, ma perché s'impara da chiunque, anche da un estraneo o da un bambino. 
Una canzone dice:
"Lascia l'apparenza e prendi il senso e ascolta quel che ho dentro."
Beh faccio ascoltare parte di me, del mio essere complesso e, nel contempo, semplice,
dei miei rapporti umani e... mi racconto.


Scrivere è quel fluire di reminescenze,
come l'acqua di un fiume,
attimi da foglio bianco
e poi... la penna scorre!

FAIRYWATER

L'acqua, elemento di rigenerazione e purificazione, è alla base di moltissimi miti che la vedono quale protagonista dell'origine della vita.
Per le popolazioni nordiche, ad esempio, l'acqua contenuta nel ghiaccio primordiale si sciolse grazie al vento caldo del sud, gocciolò e diede origine al primo essere vivente, il gigante Ymir. Nei miti babilonesi, all'inizio di tutto esisteva solo la distesa delle acque primordiali; da questa distesa si separarono due principi, l'uno rappresentante le acque dolci su cui poggiava la terra, laltro le acque salate, e quindi il mare, da cui uscirono tutte le creature.In molte altre tradizioni l'acqua rappresenta il caos primordiale da cui emergono le terre e da cui ha origine la vita. La stessa Afrodite, dea dell'amore e della bellezza fascinatrice, era nata dalla schiuma del mare (dal greco afros=schiuma bianca) e le sue sacerdotesse, ogni primavera, si bagnavano nel mare e ne riemergevano vergini a sottolineare il potere rigenerante e purificante dell'acqua.
L'Angelo guardiano di questo elemento e' GABRIELE. Questa categoria di fate comprende non solo le fate acquatiche, ma anche le sirene, le ondine e le driadi. Le fate dell'acqua sono di aspetto delicato, ma sono forse le più forti tra le fate. Sono le più belle tra le fate degli elementi. Le fate acquatiche sono quelle che conoscono i segreti dell'inconscio umano e sono capaci di entrare dentro la mente degli uomini, leggendone i pensieri. Proteggono la Vita e le persone dotate di poteri esoterici. (libero.it/officinadellefate)
Le fate dell'acqua sono delle giovani fanciulle che vivono tra le acque dei fiumi e delle sorgenti, in limpidi laghi e nelle profondità dei mari donando gioia agli umani che sentendole cantare vengono ammaliati partecipando alle loro danze.
Tra le più importanti ci sono:
LE NINFE : sono delle fate che amano filare e tessere sulle sponde dei fiumi, ma amano molto anche danzare e cantare, Escono dall'acqua di nascosto, quando nessuno può vederle, ma quando decidono di attirare a se qualche umano cominciano ad incantarlo con canti e danze amaliatori. Si presentano come giovani donne delicate e luminose e amano immergersi nei laghi e torrenti di montagna.
LE NEREIDI : sono ninfe del mar Mediterraneo, erano le 50 figlie di Nereo, un vecchio dio marino e della sua sposa. Vivono nelle profondità marine e spesso salgono in superfice per aiutare e marinai e i viaggiatori e cavalcando delfini ed altri animali marini.
LE NAIADI : sono le ninfe delle sorgenti , dei fiumi e dei laghi; sono dotate di facoltà guaritrici e profetiche e venivano considerate le nutrici della vegetazione e del bestiame.
LE ESPERIDI : sono tre ninfe, Egle, Aretusa e Ipertusa e sono figlie di Atlante o D' Espero, e hanno il compito di custodire un albero dalle mele d'oro.
LE CAMENE : sono ninfe dell'acqua che la mitologia romana chiamava camene. Esse possedevano il dono della profezia.
LE ONDINE : sono delle fate molto simili alle ninfe che vivono nei mari e negli Oceani, nei laghetti di montagna e nei torrenti. appaiono agli uomini all'alba o al tramonto come delle sirene.
LE SIFIDI : sono fate che conoscono il futuro e il passato ma non il presente. Si nutrono di rugiada e mele e ricevono energia dalla luce dell'aurora.
LE PELNE : sono delle fate trasformate da un sortilegio in colombe verdi che volano che vivono vicino alla terra. (fendy.it)
               

Se si trovasse la radice del male e la si potesse estirpare...

SE SI TROVASSE LA RADICE DEL MALE E LA SI POTESSE ESTIRPARE TORNEREMMO A VIVERE NELL'EDEN, MA CI PIACEREBBE POI COSI' TANTO?
Infondo è proprio questa battaglia continua e infinita tra bene e male, che ci fa sentir vivi, ci sprona ad andare avanti, a cercar di migliorare noi stessi, il mondo circostante
e ci stuzzica a cadere e poi rialzarci, più forti  e consapevoli di prima.
Se non hai proibizioni non hai il gusto a trasgredirle, l'angoscia del peccato e la redenzione nella rinascita.
Senza mela proibita, non ci sarebbe desiderio!

LE ORIGINI DELLE FATE

Sin dai tempi antichi il mistero delle fate è stato oggetto di congetture da parte dell’uomo.
Che cosa sono le fate? Da dove sono venute?
La mitologia norvegese racconta che le larve che uscirono dal cadavere del gigante Ymir si trasformarono in elfi della luce ed elfi delle tenebre. Gli elfi della luce, che vivono nell’aria, sono creature buone e felici; gli elfi delle tenebre, i cui domini sono sottoterra, sono di carnagione scura e cattivi ed hanno influssi malefici.
La versione islandese, invece, dice che Eva stava lavando tutti i suoi figli in riva al fiume, quando Dio le parlò. Piena di paura e di sgomento, Eva nascose i bambini che non aveva ancora lavato.
Dio le chiese se tutti i suoi figli erano lì: Eva rispose che c’erano tutti.
Dio allora dichiarò che quelli che gli aveva nascosti, sarebbero stati nascosti anche agli uomini.
Questi bambini nascosti divennero gli elfi e le fate.
Il termine fata deriva dall’antico "faunoe o fatuoe" che nella mitologia pagana indicava le compagne dei fauni, creature dotate del potere di predire il futuro e di soprassedere agli eventi umani.
La denominazione fata deriva anche da "fatica", parola che nel medioevo fu sinonimo di "donna selvatica" cioè di donna dei boschi, delle acque e, in genere, del mondo naturale.
Le fate sono esseri soprannaturali dotati di potere magico grazie al quale possono cambiare aspetto e farlo cambiare agli altri. Frequentano caverne, rocce, colline, boschi e sorgenti; sono pronte a correre in aiuto degli innocenti e dei perseguitati; riparano torti, vendicano offese, ma possono essere anche maligne e vendicative.
Dove si trova il regno delle fate?
La sua posizione è sfuggente. A volte è appena sopra la linea dell’orizzonte, altre sotto i nostri piedi.
Avalon è probabilmente l’isola delle fate più famosa.
Il leggendario re Artù fu portato nella terra delle fate, ferito a morte, per essere curato da quattro regine delle fate. Si crede che Artù giaccia ancora, con i suoi cavalieri, nel cuore di una collina immaginaria, immerso in un sonno profondo da cui si sveglierà nell’ora del bisogno per governare di nuovo le sue terre.
Terrapieni, forti e colli antichi sono le dimore tradizionali delle fate. Di notte le colline abitate dalle fate si vedono spesso risplendere di miriadi di luci scintillanti.
Se le fate sono riluttanti ad uscire dalle loro colline, si può scoprire l’entrata camminando nove volte intorno alla collina con la luna piena. La via d’ingresso verrà allora rivelata. Chi non osa entrare nella dimora delle fate può appoggiare l’orecchio contro il terreno e forse sarà premiato dalle musiche e dai canti delle loro feste.
Oltre che come dimora, le colline cave sono usate come nascondiglio dell’oro e spesso anche come luogo di sepoltura. (tratto da : Fate, di Brian Froud e Alan Lee e digilander.libero.it/leggendeitaliane)

sabato 29 novembre 2008

La fiducia e l'illusione

La fiducia è quella pianta che va coltivata e alimentata col rispetto, l'ascolto e la riservatezza.
La fiducia è una speranza, che tiene conto di quel che potrebbe accadere. E' una scelta, si decide di affidare qualcosa (o se stessi) a qualcuno, consapevoli che, almeno a livello potenziale, costui/colei potrebbe farne falò.Una volta infranta lascia i suoi frammenti, che potranno esser ricomposti ma con molta fatica
L'illusione è invece una menzogna a sé stessi, ed è completamente autoreferenziata: chi si illude non instaura un rapporto fiduciario con l'oggetto della sua illusione, semplicemente lo "dipinge", lo maschera e lo mistifica ai propri occhi in modo da farlo coincidere con una sua idea.
Chi ha fiducia cerca continuamente rapporti con la realtà, per assicurarsi che la sua fiducia non venga tradita e tale fiducia va costantemente messa alla prova e verificata affinchè non cada nell'illusione.
Chi si illude invece sfugge ogni contatto con quanto è, nella vana arroganza di conoscerlo già.
Chi si fida (affidando, anche se stesso/a) rimane deluso comunque, se poi si accorge che quella fiducia era riposta nella persona "sbagliata", che non è come si era presentata e svela il suo vero essere, quando ormai l'altra/o si è affidato/a.
Purtroppo l'ipocrisia è dilagante e quella pianta che, fino a pochi attimi prima, sembrava florida e rigogliosa, appassisce, anche senza un reale motivo, per leggerezza.
Senza comprensione non ci può essere crescita, ma più comprendi e più vorresti aver capito male!
Bisogna sempre stare vigili, perché tutto può cambiare alla velocità della luce e quella pianta seccarsi per un temporale o, semplicemente, per un granello di sale, scivolato dalle mani!

IL CIGNO

L'atto simbolo del cigno è quello di ricevere e accettare la grazia portata dal cambiamento.
Sottomettendosi al piano divino del Grande Spirito e non opponendosi in nulla alla sua volontà, consente al suo aspetto giovanile, quello del brutto anatroccolo , di trasformarsi in un elegante e maestoso cigno.
Accettata questa grazia, può portarsi con lo sguardo nello spazio oltre il mondo delle apparenze, nel cosiddetto tempo del sogno.
Uomini in possesso della forza del cigno hanno la capacità di prevedere il futuro, poiché perfettamente in grado di accettare senza riserve il disegno della volontà divina.
Il cigno ci insegna a portare la nostra coscienza in armonia con tutti i livelli dell'essere e a sviluppare con cura la nostra intuizione: ciò ci aiuta a pervenire alla capacità di vedere nel futuro.(indianiamericani.it)

giovedì 27 novembre 2008

La forza della parola

Una parola, ambasciatrice di emozioni e di messaggi per l'anima...
Arriva anche senza esser richiesta e trafigge, dando un dolore incommensurabile, come una lama sottile, che pian piano penetra dentro, lacerando e facendo scioglier lascrime amare, ma può dar anche gioia, infinita come il mare, commozione come lo sguardo di un bimbo, che chiede solo d'esser amato!
Una parola ha il sapore di fiele o di miele...
"è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello."(G.B.)
Un proverbio popolare diceva: "Parla poco, ascolta assai, e giammai non fallirai."

ORIONE- ORION (ORI)

La costellazione di Orione rappresenta la figura di un uomo mentre affronta la carica del toro, rappresentato nella vicina costellazione. Le stelle Betelgeuse e Bellatrix (la combattente o l'amazzone) raffigurano le spalle d'Orione; in mezzo è posta la cintura (le stelle Mintaka, Alnilam e Alnitak). In alcune regioni d'Italia le tre stelle della cintura sono identificate con i re Magi. Più in basso, si trovano Saiph e Rigel, che segnano rispettivamente il ginocchio e il piede. La nascita di quest'asterismo risale ai Sumeri, che l'associarono al mito di Gilgamesh. Per i Greci, invece, Orione era figlio di Poseidone, dio del mare, ed Euriale, figlia del re di Creta Minosse. Si narra che una notte, sull'isola di Chio, corteggiò Merope, figlia del re Enopione. Questo suscitò l'ira d'Enopione, che lo fece accecare e lo allontanò dall'isola. Orione si diresse verso l'isola di Lemno dove Efesto, impietosito dalla sua cecità, lo affidò alla guida di Cedalione, che lo condusse verso est, da dove sorgeva il sole e lì riacquistò la vista. Il mito di Orione è legato anche alle Pleiadi (rappresentate dall'omonimo ammasso nel Toro, M45), le sette figlie d'Atlante e Pleione, delle quali s'innamorò e perseguitò. Secondo la tradizione Orione trovò la morte a causa di uno scorpione. L'eroe osò offendere Artemide (Diana), dea della caccia, affermando di essere in grado di uccidere qualsiasi animale della Terra. Quest'ultima, indignata, generò uno scorpione che lo punse a morte. Entrambi furono poi portati in cielo, ma collocati in punti opposti affinchè il velenoso animale non potesse più insidiare il grande cacciatore. Quando le stelle dello Scorpione sorgono ad est, Orione, sconfitto, tramonta ad ovest. La morte d'Orione lasciò solo e disperato il suo fedele cane Sirio, che ululò per giorni e giorni fino a che Zeus non lo trasformò in una costellazione (Cane Maggiore). La costellazione d'Orione fu oggetto di molte attenzioni anche da parte degli Egizi. Sembra, infatti, che nell'antico Egitto le tre piramidi nella piana di Giza siano state disposte in modo da rappresentare la costellazione, col fiume Nilo come Via Lattea. Inoltre un condotto d'aria della Grande Piramide è "allineato" con le stelle della cintura d'Orione, mentre l'altro condotto laterale è allineato con Thuban (alpha Draconis), la stella polare di allora.(Edoardo Piani - castfvg.it)

Ascoltare

Niente è assoluto, ma nel relativismo esistono regole scientifiche, di condotta, civili, morali, di convivenza nella società, regole scritte, ma ben più importanti sono quelle dettate dalla nostra coscienza e dalla nostra anima.
Quel che per me è giusto, può esser sbagliato per l'altro e allora?
Affascinante è la comprensione dell'altro, ben più difficile è venir incontro all'esigenza di ogni singolo individuo.
Se accantonassimo il nostro egoistico bisogno di prevalicazione, basterebbe fermarsi a conoscere, imparare ad ascoltare l'altro, e ci renderemmo conto che, poi, non siamo così diversi, gli uni gli altri, e tutti vorremmo pace, serenità e pacifica convivenza, nel rispetto di noi stessi e di chi abbiamo accanto.Irreale?
La serenità non è, certo, di questo mondo, ma affrontare il giorno, con occhi benevoli, aiuta a trovar attimi preziosi di pace per rigenerarsi e viver tutto e tutti con rispetto, ottimismo e realistico idealismo.
"La vita ti sorride se la guardi sorridendo."= il "motto" che prediligo e che cerco di seguire ed ascoltare sempre.

IL PORCOSPINO

Nella Ruota di Medicina al porcospino viene assegnato il posto del bimbo innocente.
Il suo essere infatti è pacifico e amichevole, non attacca mai per primo.
Quando poi gli capita, e succede di rado, di venire attaccato da un altro animale, gli bastano le sue spine per difendersi.
Le qualità tipiche che il porcospino impersona sono la fede e la fiducia.
La fede, secondo il vecchio detto, può spostare le montagne ed è quindi da considerare come una forza molto potente.
Il porcospino può insegnare a essere aperti, a scoprire ogni giorno qualcosa di nuovo e meraviglioso e a liberarsi ogni tanto dal mondo troppo serio e rigido degli adulti.
Esso ha mantenuto intatta la sua capacita di stupirsi come un bambino e di nutrire una spensierata fiducia nel piano divino, che provvederà dall'alto a far procedere tutto nel migliore dei modi.
L'amichevolezza e il carattere aperto nei confronti degli altri aiutano infatti ad aprire i cuori e a dividere con essi gioia e amore. (indianiamericani.it)

martedì 25 novembre 2008

Viviamo l'oggi!

 
La nostra vita è un cammino con tante strade da percorrere e tante da tralasciare e tante altre da non prendere.
A volte ci chiediamo:" E se avessi fatto scelte diverse?"
Sicuramente la risposta più congrua e razionale è che non saremmo nella situazione attuale, ma non credo che avremmo migliorato o peggiorato, sarebbe solo diverso, forse.
In fondo se mi guardo indietro vedo solo nero, fuliggine e tanta ipocrisia, che aleggiava attorno a me e che mi ha portato solo dolore e le scelte fatte hanno spazzato via tanta negatività e mi son state di ausilio per esser ciò che sono, più forte, più responsabile e forse più razionale, ma ho mantenuto la mia essenza ideal realistica, anzi son diventata più ottimista, come dice qualcuno, ed il mio sguardo al futuro è più sereno.
Non cambierei il presente col passato per nulla al mondo e vado fiera di me stessa, delle mie scelte e del mio oggi!
Perchè si tende a conservare maggiori memorie in merito ad eventi negativi?
Forse perchè son quelli che insegnano di più e ci restano dentro cicatrici indelebili, ma se stiamo sempre a pensare al passato il nostro presenta diventa già passato e non vien vissuto a pieno.
Pensare, progettare e cercar di costruire un futuro è il bisogno dell'uomo, però non bisogna farsi condizionare da tali pensieri, rovinandosi l'oggi!
Viviamo ora bene, così costruiamo il domani! Può sembrar una contraddizione, ma solo apparente!!!
Ho letto di qualcuno che pensa che l'universo a poco a poco si spenga, perchè lo dice la scienza.Motivo in più per vivere ogni attimo, intensamente e non pensare alla morte come fine di tutto, ma (come già ho espresso in un altro post) come trasformazione transitoria di elementi, quali noi, il nostro mondo e tutto il creato. In fondo è proprio la scienza che dice che la materia non si crea e non si distrugge, ma si trasforma!E noi siamo materia, elementi dell'universo e perchè non pensare che anche noi siamo solo parte di quest'evoluzione transitoria di elementi? Ci potremmo ritrovare come spiriti, come elementi mutati in altre dimensioni, ma l'importante è come affrontiamo la vita nell'oggi, nei cambiamenti, in ogni cosa che guardiamo, respiriamo, viviamo!

PANDORA

Zeus, infuriato dal furto del fuoco divino commesso da Prometeo, decise di punire questi e la sua amata creazione: il genere umano. Prometeo venne incatenato ad una roccia ed ogni giorno un'aquila gli divorava il fegato: l'organo ricresceva durante la notte e così, la mattina successiva, il tormento riprendeva. Per punire gli uomini Zeus ordinò ad Efesto di creare una bellissima fanciulla, Pandora (dal greco "pan doron" = "tutto dono"), alla quale gli dei donarono grazia e ogni sorta di virtù.
Ermes, che aveva dotato la giovane di astuzia e curiosità, venne incaricato di condurre Pandora dal fratello di Prometeo, Epimeteo. Questi nonostante l'avvertimento del fratello di non accettare doni dagli dei, sposò Pandora. Ella aveva con sé un vaso regalatole da Zeus che conteneva tutti i mali del mondo, il quale le aveva ordinato di lasciarlo sempre chiuso. Ma, spinta dalla curiosità, Pandora disobbedì: aprì il vaso e da esso uscirono tutti i mali del mondo (la vecchiaia, la gelosia, la malattia, la pazzia, ecc.) che si abbatterono sull'umanità. Sul fondo del vaso rimase solo la speranza, l'ultima a morire. Secondo un'altra versione il vaso, aperto da Epimeteo, conteneva tutti i beni, che volarono verso gli dei,lasciandone sprovvisti gli uomini.
Nella mitologia greca, il vaso di Pandora è il leggendario contenitore di tutti i mali che si riversarono nel mondo dopo la sua apertura.
Secondo il racconto tramandato dal poeta Esiodo ne "Le opere e i giorni", il vaso (pithos, pίθος in greco antico) era un dono fatto a Pandora da Zeus, il quale le aveva raccomandato di non aprirlo. Pandora, che aveva ricevuto dal dio Ermes il dono della curiosità, non tardò però a scoperchiarlo, liberando così tutti i mali del mondo. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza (Elpis), che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo.
Prima di questo momento l'umanità aveva vissuto libera da mali, fatiche o preoccupazioni di sorta, e gli uomini erano, così come gli dei, immortali.
Dopo l'apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza.
Con il mito del vaso di Pandora la teodicea greca
(per chi non lo sapesse la teodicea è una branca della teologia, che studia il rapporto tra la giustizia di Dio e la presenza nel mondo del male; per tale motivo, è anche chiamata teologia naturale. Il termine deriva dai lemmi greci Théos (Dio) e da un derivato di díke (giustizia), letteralmente teodicea significa "giustificazione di Dio")
assegna alla curiosità femminile la responsabilità di aver reso dolorosa la vita dell'uomo:
per questo motivo il personaggio di Pandora non è dissimile da quello di Eva nel mito biblico della Genesi.
Oggi l'espressione vaso di Pandora viene usata metaforicamente, per alludere all'improvvisa scoperta di un problema o una serie di problemi, che, per molto tempo, erano rimasti nascosti e che una volta manifesti non è più possibile tornare a celare. (wikipedia)

lunedì 24 novembre 2008

Gente

A volte son ancora ingenua e testarda a voler credere che ci sia, anche, del buono
in chi vive solo di chiacchiere e apparenze.
Non si può guardar con un filtro e poi dispiacersi nel rendersi conto
che la persona è diversa da come ce l'eravamo disegnata nella nostra mente,
perché avevamo bisogno di crederla come noi volevamo,
eppure ancor oggi non riesco a rimanere indifferente, quando capita.
Non mi aspetto nulla, ma...non sono una che si rassegna!

RE ARTU' E MAGO MERLINO: LEGGENDA O REALTÀ?

Re Artù e Merlino, il suo mago protettore, sono due figure fra le più note nel mondo della mitologia. Ma, viene da chiederci, sono esistiti davvero? Oppure sono soltanto personaggi di una fiaba? Se possiamo, tutto sommato, condividere i dubbi su Merlino, un po' stupisce osservare come molti storici moderni mettano in forse anche la figura di Artù. Una questione, questa, che va ovviamente affrontata prima di procedere oltre. Si parla per la prima volta dei due nel libro intitolato “Storia dei re di Britannia”, scritto attorno al 1135 dal vescovo gallese Goffredo di Monmouth, la cui credibilità può essere messa alla prova fin dal primo capitolo, laddove spiega che la Britannia sarebbe stata così chiamata dal nome del guerriero Bruto, approdato sull'isola direttamente da Troia in fiamme.
Circa cento pagine dopo, Goffredo cita un re di nome Vortigern un personaggio storico realmente vissuto - intenzionato a innalzare una grande torre sul monte Snowdon, in Galles. Ma ogni volta che un pezzo di costruzione veniva assemblato, immediatamente crollava. Dopo reiterati tentativi, tutti falliti, i suoi consiglieri gli rivelarono che l'unico modo per riuscire nell'impresa consisteva nello spruzzare il basamento della torre col sangue di un bambino senza padre. All'istante i suoi messaggeri si sparpagliarono in tutto il regno alla ricerca del ragazzo, finché lo trovarono intento a giocare. Nella foga del gioco uno dei suoi compagni lo accusò di essere un demone, perché, come tutti sapevano, non aveva un padre. Quel ragazzo si chiamava Merlino. Vortigern mandò allora a chiamare lui e la madre, che era la figlia del re del Galles del Sud. La donna, costretta a parlare, rivelò che una notte era stata sedotta nella sua camera da letto da un giovane misterioso che dopo l'amplesso era come svanito nell'aria, anche se a volte le capitava ancora di sentire la sua voce, specie nei momenti in cui era sola. Era proprio quello che Vortigern desiderava sentirsi dire. Siccome Merlino era senza padre, il suo sangue avrebbe bagnato le fondamenta della torre, così come indicato dagli indovini reali. Merlino era insorto, si era detto pronto a dimostrare che i consiglieri erano dei mentitori e aveva chiesto di essere condotto al loro cospetto. «Volete sapere perché la torre crolla continuamente?», aveva chiesto loro. Tutti avevano scosso la testa, in silenzio. «Perché sotto terra esiste una caverna colma d'acqua che ne mina le fondamenta». Vortigern ordinò allora di scavare e di portare alla luce il lago. Ciò fatto, Merlino aveva dato ordine di prosciugarlo fino a che non avessero scoperto due grandi draghi (o serpenti). Quando anche questa previsione si avverò, Vortigern decise di risparmiare la vita al giovane indovino. Poi Merlino aveva vaticinato alcune profezie, fra cui quella che lo stesso Vortigern sarebbe morto bruciato dentro una torre. Ovviamente, tutto avvenne come predetto, quando un altro re di nome Aurelio Ambrogio - il legittimo erede al trono - aveva invaso la Britannia e incendiato la torre di Vortigern. Quando Ambrogio venne avvelenato dal fratello, il trono passò a Uther Pendragone. Conquistata la Scozia, Uther aveva invitato tutti i nobili del regno alla celebrazione della sua incoronazione. Fra questi c'era il duca Gorlois di Cornovaglia, accompagnato dalla bellissima moglie, Igerna. Folgorato da Igerna, Uther se ne era innamorato all'istante, costringendo Gorlois a lasciare nottetempo il castello della festa. La fuga improvvisa aveva offeso Uther, che era sceso in guerra contro Gorlois. Per evitare il rapimento della moglie, il duca aveva allora rinchiuso Igerna nell'imprendibile castello di Tintagel, che dominava inaccessibile su di un isolotto unito alla terraferma soltanto da uno stretto braccio di terra, unico accesso al maniero. Venuto a conoscenza di questo, Uther, folle d'amore, era caduto in depressione, perché non riusciva a pensare ad altro che a Igerna. Il problema venne brillantemente risolto da Merlino, che, ricorrendo alle sue potenti arti magiche, aveva cambiato le sembianze di Uther facendolo assomigliare a Gorlois. Sotto quelle mentite spoglie, Uther era così riuscito a penetrare nel castello e a unirsi con l'ignara regina. Quella notte era stato concepito un figlio, che sarebbe diventato re Artù. Nel frattempo, mentre Uther era impegnato nel soddisfare la sua smania sessuale, il suo esercito attaccava il castello dove Gorlois si era rifugiato per difendersi. Nello scontro Gorlois era morto e così Uther era stato libero di impalmare Igerna e farne la sua regina. Dopo quindici anni di regno, anche Uther era stato assassinato e Artù era diventato il nuovo re. Chi ha letto la storia narrata da Goffredo (un testo che ancora oggi viene stampato in edizione economica) si chiederà a questo punto che fine hanno fatto la spada nella roccia, la Tavola Rotonda e tanti altri episodi famosi della saga arturiana. La risposta è che tutto questo venne aggiunto alla storia solo in un momento successivo da autori e cronisti francesi. La forma definitiva del racconto venne poi data dall'opera di Thomas Malory dal titolo “La morte di Artù”, pubblicata da William Caxton nel 3485. Fino al 1926 non si sapeva granché a proposito di Malory, quando una ricerca letteraria ha rivelato - fra lo stupore degli studiosi - che si trattava di un lestofante, un ladruncolo che saccheggiava monasteri e rubava bestiame e che almeno in due occasioni aveva stuprato una donna di nome Joan Smyth, moglie di un certo Hugh Smyth. Da quello che è emerso, Malory scrisse il suo capolavoro nella prigione di Negate, dove venne sepolto. Ma se Artù era appena un ragazzo quando suo padre morì, come avrebbe potuto dimostrare il suo diritto regale estraendo la spada dalla roccia (o un'incudine dalla pietra, secondo la versione di Malory?). Malory supera il problema narrando che sin dal momento della nascita, Artù era stato adottato da Merlino, che lo aveva dato in affidamento a Sir Ector, la cui moglie aveva provveduto a crescerlo sano e forte. Insomma, tutta questa storia suona così assurda che si capisce benissimo come mai molti storici arricciano il naso quando devono esprimersi in merito alla sua autenticità. Uno dei loro punti forti di contestazione è un'altra fonte di informazioni sull'epoca, un monaco di nome San Gilda, autore di un'opera crudele e forte intitolata “De excidio et conquestu Britanniae” nella quale non si cita affatto Artù, sebbene si menzioni la battaglia di monte Badon, la più famosa fra quelle da lui sostenute. C'è però un'osservazione importante da fare. Un altro cronista, Caradoc di Llancarfan, autore di una biografia di san Gilda, ricorda che Artù uccise Hueil, uno dei fratelli del santo. Un fatto grave che potrebbe farci comprendere come mai Gilda non tenesse affatto a citare Artù nella sua storia. Allora, in definitiva, che cosa sappiamo veramente in merito al leggendario eroe chiamato Artù? Proviamo a vedere. Per prima cosa non fu un re ma un condottiero, un generale. Non andava in giro su un candido destriero bianco, vestito con una pesante armatura medievale come siamo soliti immaginarlo, semplicemente perché visse un periodo storico molto precedente: nacque attorno al 470 d.C., nel momento in cui i Romani stavano abbandonando definitivamente la Britannia. Egli era, infatti, un romano, forse un cittadino romano. Così il suo cavallo era un piccolo cavallo romano, poco più grande di un pony, e la sua tanto decantata spada un corto e piccolo gladio romano e non la lunga e leggendaria Excalibur. Attorno al 410 d.C. i Romani avevano deciso di abbandonare la Britannia: avevano necessità di richiamare tutti i contingenti disponibili per fronteggiare i barbari che minacciavano la stessa Roma. Era allora sorto un capo tribù di nome Vortigern che si era proclamato re della Britannia, subito contrastato dai selvaggi Pitti che vivevano a nord, al confine con la Scozia. Per far fronte a queste minacce, nel 433 Vortigern aveva chiamato sull'isola orde di mercenari sassoni affinché si congiungessero con il suo esercito. Così avvenne, ma quando era arrivato il momento di saldare il conto, visto che il re non era in grado di farlo, decisero che si sarebbero pagati da soli conquistando le terre di Britannia. I locali Britanni - quelle popolazioni che oggi chiamiamo Celti -vennero poco a poco scacciati verso il Galles, la Cornovaglia e la Scozia. Poi era intervento un ex comandate romano di nome Ambrogio Aureliano. Sotto la sua guida i Celti si erano compattati e avevano riconquistato le terre perdute, ricacciando gli invasori oltre il mare. Alla sua morte, il fratello Uther Pendragone, aveva rilevato il trono. Uno dei suoi più brillanti comandanti si chiamava Artorius, il leggendario re Artù, che poteva essere, o meno, figlio di Uther. Fu proprio per merito di Artù che i Sassoni vennero contrastati nel modo più fiero grazie a una serie di grandi battaglie, l'ultima delle quali, lo scontro di Monte Badon, avvenne attorno al 518 d.C. Queste gesta epiche fecero di lui l'equivalente moderno di un generale Montgomery o di un Eisenhower. Se gli alleati si fossero mantenuti fedeli alla parola data, i Sassoni invasori sarebbero certamente stati ricacciati sul continente e sarebbero stati i Celti discendenti di Artù a governare l'isola, e non gli Anglosassoni. Ma per sua sfortuna, gli alleati incominciarono a litigare disperdendo la loro energia e costringendo Artù a passare gli ultimi anni della sua vita a tentare invano di riconciliare il suo popolo. Poi anche per lui era venuta l'ultima, decisiva battaglia, quella di Camlann - secondo Goffredo avvenuta nei pressi del fiume Camel in Cornovaglia - ucciso dal nipote Mordred e non dai Sassoni invasori. Sempre secondo Goffredo di Monmouth, il corpo senza vita di Artù venne portato nell'isola di Avalon, da molti identificata con il centro di Glastonbury, all'epoca una piccola città nell'Inghilterra occidentale, nota per una famosa abbazia e per un torrione, una collinetta sormontata da una torre. (Anche se oggi Glastonbury non è un'isola, ci fu un tempo in cui, circondata com'era dalle acque del Canale di Bristol, poteva considerarsi tale). Poiché il luogo della sepoltura doveva necessariamente restare segreto per impedire che i Sassoni lo profanassero, la fantasia popolare diede corpo alla diffusissima leggenda secondo la quale Artù non era veramente morto, ma semplicemente dormiva in una grotta, pronto a ridestarsi non appena il suo popolo avesse avuto di nuovo bisogno di lui. Nell'estate del 1113, circa vent'anni prima che Goffredo di Monmouth scrivesse la sua cronaca, un gruppo di preti francesi si presentò a Bodmin, in Cornovaglia, portandosi dietro alcune sacre reliquie. Quando uno dei locali rivelò agli ospiti che Artù non era morto ma stava semplicemente vegliando in un posto sicuro, pronto a intervenire in soccorso della sua gente, l'attendente di uno dei preti si era messo a ridere. L'affronto aveva provocato un violento contrasto di opinioni, fino al punto che un manipolo di uomini armati aveva fatto irruzione nella chiesa con l'intenzione di dare una severa lezione agli sfrontati pellegrini. La cronaca narra che solo con grande fatica si riuscì a ricomporre il dissidio. L'episodio dimostra come quella di Artù fosse già una figura leggendaria ancora prima che Goffredo desse alle stampe il suo capolavoro. Infatti Artù viene citato numerose volte in alcuni poemi gallesi scritti circa un secolo dopo la sua scomparsa. Ma i riferimenti più importanti ci vengono da un'altra opera, una sorta di confusa collezione di materiale storico compilato da un monaco di nome Nennio, fra l'800 e l'820 d.C. Il riferimento più antico che Nennio menziona a proposito di Artù, sono i cosiddetti Annali pasquali, ovvero le tavole delle ricorrenze della festività di Pasqua (una celebrazione che non cade in una data fissa) compilate dai solerti monaci. Il testo delle tavole offre un ampio margine di tempo. In uno - in corrispondenza dell'anno 518 - si trova una notazione in latino in cui si dice: «La battaglia di Badon nella quale Artù portò sulle spalle per tre giorni e tre notti la croce di Nostro Signore Gesù, grazie alla quale i Britanni uscirono vincitori». Una seconda postilla, relativa all'anno 539 segnala: «L'eccidio di Camlann nel quale Artù e Modred morirono entrambi». Se diamo credito agli Annali pasquali, dopo Badon, Artù regnò dunque ancora per almeno ventuno anni. Ma l'episodio più drammatico della storia di Artù accadde circa trent'anni anni dopo la morte di Goffredo di Monmouth (avvenuta nel 1154), durante il regno di Enrico II, il sovrano ricordato per la triste vicenda dell'assassinio di Thomas Becket. Enrico era un viaggiatore instancabile. Un giorno, nel corso di una spedizione in Galles, si era imbattuto in un bardo, un "cantore del passato", il quale gli aveva rivelato che Artù era sepolto nelle cripte dell'abbazia di Glastonbury. Per proteggere il corpo dalle possibili vendette dei Sassoni, era stata scavata una fossa profonda quasi cinque metri. Il cantore rivelò anche l'esatta collocazione della bara, che si trovava fra "due piramidi". Il re ne restò affascinato e contento, perché Goffredo aveva tratteggiato la figura di Artù come quella di un grande generale, il più grande dal tempo di Giulio Cesare. (Secondo Goffredo, Artù aveva conquistato l'Irlanda, la Scandinavia e la Francia e stava marciando verso Roma, quando, raggiunto dalla notizia della ribellione di Mordred, era stato costretto a fare dietrofront e a ritornare in Inghilterra). Enrico era anche felice di sapere che il leggendario eroe era sepolto a Glastonbury. Come pronipote del grande Guglielmo il Conquistatore, Enrico ben conosceva la leggenda popolare secondo la quale Artù sarebbe tornato in vita qualora la sua patria ne avesse avuto bisogno. Se fosse riuscito a trovarne la tomba e a dimostrare quindi che egli era morto per davvero, i ribelli che continuavano a fare di quella leggenda una sorta di bandiera - come era capitato nel caso di Bodmin - l'avrebbero finita una volta per tutte con quella storia assurda. In aggiunta, Enrico nutriva una particolare predilezione per l'abbazia di Glastonbury, perché l'abate rettore Enrico di Blois aveva fortemente contribuito a sostenere la causa della sua salita al trono. E così il re si era precipitato all'abbazia per dargli la buona nuova. Stranamente, l'abate non mostrò tutta quella soddisfazione che Enrico immaginava. La sua abbazia, d'altra parte, era già una delle più ricche di tutto il paese e non aveva certo bisogno di altra notorietà per attirare i pellegrini. E poi, "in mezzo a due piramidi" poteva voler dire tutto e nulla. Ma di colpo, la situazione era precipitata. Il 25 maggio del 1184 l'abbazia era stata devastata da un terribile incendio che l'aveva quasi totalmente distrutta. L'unica consolazione per i poveri frati stava nel salvataggio della preziosa immagine di Nostra Signora di Glastonbury, quasi come se il Signore avesse voluto dare il segno, pur nella rovina, di avere ancora in serbo grandi cose per il bene dell'abbazia. Per re Enrico era venuto il momento di rifarsi sotto. Promosse una colletta e fu il primo dei generosi donatori per la ricostruzione dell'abbazia. Nel 1191 uno dei monaci morì esprimendo il pio desiderio di venire sepolto sotto l'edifico, in mezzo a due croci. Nel predisporre questo tumulo, vennero scoperte due colonne marmoree che in qualche modo avrebbero potuto anche essere descritte come due piccole piramidi. Ai monaci vennero subito in mente le parole cantate dal bardo e già che c'erano, visto che lo scavo era ormai già iniziato decisero di spingerlo fino ai cinque metri indicati come base della tomba di Artù. Scavando, si imbatterono in una lastra di pietra che non persero tempo a sollevare. Nella sua parte interna scoprirono una croce di piombo che riportava un'iscrizione latina: "Qui giace sepolto il celebre re Artù, nell'isola di Avalon". Eccitati dal ritrovamento, i monaci continuarono a scavare, probabilmente per molti giorni, al fine non solo di procedere ancora di più in profondità, ma anche per realizzare un buco largo a sufficienza per permettere agli scavatori di muoversi agevolmente. Finalmente, una volta raggiunta la quota indicata, i badili incontrarono qualcosa, che però non era né marmo né pietra, ma legno. Si trattava di un sarcofago enorme, ricavato dal tronco scavato di una quercia. All'interno venne ritrovato il grande scheletro di un uomo, il cui cranio era segnato da profonde ferite. Un monaco che aveva intravisto una ciocca di capelli biondi e che aveva tentato di sporgersi nel sarcofago per prenderli, se li era visti svanire fra le mani e per l'emozione era caduto dentro con grande spavento. Poi si era trovato anche un secondo scheletro decisamente più minuto, immediatamente attribuito a Ginevra, la sposa di Artù. Un cronista del tempo di nome Giraldo Cambrense, testimone oculare, qualche anno dopo la riesumazione delle ossa e della croce riferisce che nella iscrizione si citava anche la "Regina Wenneverla" (Guinevere, ovvero Ginevra). Da quel momento in avanti l'abbazia divenne il luogo turistico e di pellegrinaggio più rinomato d'Inghilterra, se non dell'intera Europa. Va da sé che l'abbazia venne ricostruita da cima a fondo in modo ancora più sfarzoso e ricco. Molti studiosi sono restii a credere a questa storiella e accusano i monaci di Glastonbury di averla inventata di sana pianta, tuttavia la cosa sembra poco plausibile. Giraldo Cambrense pare potersi definire un uomo onesto - è stato il primo a denunciare Goffredo e la sua Historia come un concentrato di fandonie - e sostiene di aver veduto coi propri occhi i due scheletri e la croce di piombo. Quest'ultimo oggetto venne conservato per molti secoli, tanto che nel 1607 William Camden, un illustre antiquario del tempo, ebbe ancora modo di trarne un disegno. Nel testo compare Arturius, antica forma in uso al tempo per indicare re Artù, che però non era mai stata usata fino a quel momento. Insomma, la confusione esiste. Tuttavia, recenti scavi effettuati nel 1963 da C.A. Radford hanno dimostrato che i monaci non mentivano quando dicevano di essersi spinti nello scavo fin oltre cinque metri. Per di più, come il grande studioso di cose arturiane Geoffrey Ashe ha sottolineato, Glastonbury era anche ritenuta la sede della tomba di Giuseppe di Arimatea, l'uomo che aveva provvisoriamente prestato la sua grotta sepolcrale per ricoverare il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Viene allora da chiedersi: come mai se gli zelanti monaci ebbero la buona sorte di rintracciare il sarcofago di Artù non pensarono di riportare alla luce anche quello di Giuseppe? Ma questo è un altro problema. In definitiva, da tutto quello che si è detto, pare certo che re Artù - o il generale Arturius - sia esistito veramente, distinguendosi per la straordinaria bravura nel comandare e nel combattere. Questo, ovviamente, non risponde a tutti gli interrogativi, che continuano a essere molti, anche se la ricerca sta, piano piano, provando a risolverli uno dopo l'altro. Per esempio, sono molti gli studiosi che si dicono finalmente sicuri di aver identificato la collocazione geografica della mitica Camelot, la meravigliosa corte di Artù. Nel 1542 uno scrittore di nome John Leland annotava che una certa collina fortificata di South Cadbury, nel Somerset, era in realtà da riconoscere come «Camallate, un tempo famosa città o castello... re Artù trascorreva molto tempo a Camallate». Nel 1966 si iniziò a scavare al castello di Cadbury. Sopra le rovine romane spiccavano altri importanti resti di edifici certamente in uso nel periodo arturiano da parte di qualche comandante di notevole autorità e potere. A questo punto anche l'apparentemente assurda storia sulla rocca di Tintagel narrata da Goffredo di Monmouth incomincia ad assumere un tono di maggiore credibilità. Il castello di Tintagel venne costruito nel 1140, vale a dire quando Goffredo scrisse la sua Historia. Secondo gli storici, al tempo di Artù in questa zona esisteva solo un antico monastero celtico. Nel 1924 il "visionario" Rudolf Steiner nel corso di una visita a Tintagel, fece una lettura spiritica del luogo identificando alcune postazioni come, per esempio, la Tavola Rotonda, il dormitorio dei cavalieri e così via. Tutto sembrava una mera invenzione. Ma nella calda estate del 1983 un furioso incendio bruciò completamente tutta la vegetazione della piccola isola. Sono così venute alla luce le fondamenta di non meno di un centinaio di piccole costruzioni rettangolari e di un edificio, composto da una sola grande stanza, lungo circa 25 m. Più in basso, ai piedi della collina, è emerso un piccolo porticciolo naturale e un po' ovunque nel territorio dell'isola sono venuti alla luce resti di ceramiche attribuibili a anfore e giare, ad indicare come olio e vino fossero materia di primo e forte consumo largamente importata. (La quantità di residui di tal genere trovati in questo sito archeologico superano da soli tutti gli altri mai rintracciati nel resto delle isole britanniche). Dall'altro capo dell'isolotto, di fronte a antichi tumuli sepolcrali celtico cristiani, è venuta alla luce una roccia con un'impronta ben modellata sopra. Era usanza del tempo che i condottieri e i sovrani lasciassero questi segni del loro potere, per indicare il loro predominio sul territorio che dovevano difendere. (In questo caso, anche il silente e severo sguardo degli antichi antenati avrebbe contribuito all'impresa). Tutto questo induce a vedere in Tintagel la fortezza di un grande capo, qualcosa di ben di più di un semplice monastero. Pertanto, sostenere l'ipotesi che al tempo di re Artù fosse disabitata è alquanto azzardato. Insomma, mettendo insieme tante diverse testimonianze, la realtà storica di Artù e delle sue imprese diventa poco alla volta sempre più accettabile. Su questa scia, nel suo libro “Arthur: Roman Britain's Last Champion”, l'autore Beram Saklatvala è arrivato a sostenere che anche per confermare la realtà di Excalibur e del Santo Graal le prove disponibili sono già moltissime. La parola latina che indica pietra è saxo, vocabolo molto vicino a Sassoni. Se in alcune antiche cronache si legge di un certo Artù che trae una spada da un sassone - un qualche guerriero da lui incontrato e ucciso - ecco che, per un normale e quasi spontaneo gioco di parole e di equivoci, la leggenda si trasforma nella storia della spada nella roccia. Goffredo di Monmouth afferma che la spada di Artù era detta “Caliburn”. Caliburn è una combinazione che nasce da due parole che significano ambedue “fiume”: la celtica “cale” e la sassone “burn”. Una spada ovviamente necessita di essere temprata in acqua fredda e se la parola anglosassone cale significa "freddo", caliburn potrebbe tradursi come "corrente gelida". In questa chiave, la spada di Artù potrebbe aver ricevuto il suo nome dal fiume nelle cui acque gelide essa venne temprata, ossia nel Cale, che scorre nei pressi di Sturminster, nel Dorset. In merito al Graal - la sacra coppa che si dice sia stata usata da Gesù nel corso dell'Ultima Cena e nella quale si racconta che Giuseppe di Arimatea raccogliesse gocce del suo sangue e da lui stesso in seguito condotta a Glastonbury - si tratta forse di un oggetto dalle dimensioni più grandi, una specie di bacinella per abluzioni ritualistiche, piuttosto che una coppa vera e propria. Nel 1959, nel corso di una campagna di scavi effettuata presso i resti di una villa romana in nord Africa, databile grosso modo allo stesso periodo in cui visse Artù, venne alla luce una grande urna marmorea. Su di essa era scolpita una croce e sul coperchio si potevano ancora notare alcuni fori che segnavano la sagoma di una croce, facendo intuire come un tempo vi fosse fissata una croce in metallo. Quasi certamente l'urna conteneva le spoglie mortali di un santo e veniva forse usata per santificare impegni e giuramenti, come siamo ancora abituati a fare oggi giurando sulla Bibbia. Un foro per le libagioni suggerisce inoltre un suo uso per qualche speciale rito. Certamente anche Artù doveva disporre nella sua cappella di un bacile simile, sul quale consacrare in forma ufficiale i giuramenti dei suoi cavalieri. Qualora nel corso di una delle tante battaglie, questo oggetto fosse caduto nelle mani del nemico, ecco come, secondo Saklatvala, avrebbe potuto nascere il mito della cerca, della riconquista del Santo Graal. Che dire, invece, a proposito di Merlino? È davvero un personaggio inventato di sana pianta da Goffredo di Monmouth? Dopo la Historia, Goffredo scrisse “Vita di Merlino”, un poema rivolto a un numero ristretto di lettori. Se Goffredo avesse inventato Merlino ci aspetteremmo che in questo secondo lavoro avrebbe raccontato le stesse cose già narrate nel primo o, per lo meno, che non le avrebbe contraddette. Merlino era molto più avanti negli anni che non Artù, visto che era un ragazzetto quando ancora era in vita re Vortigern e, stando a quanto testimonia san Gilda, Vortigern fece il grave errore di convocare i Sassoni in Inghilterra nel 443 d.C. Accade però che nell'opera di Goffredo, Merlino è al servizio di un re di nome Rodarco, impegnato a combattere un re degli Scoti chiamato Guennolous, due personaggi storici senz'altro vissuti però ben cento anni dopo la presunta morte di Artù. Goffredo si rende conto di questo anacronismo e lo giustifica affermando che Merlino visse fino a tardissima età, certamente oltre il secolo. L'impressione è però un'altra: che Goffredo abbia rinvenuto del materiale contraddittorio e che si sia sentito in obbligo di mescolare le carte per cercare di salvare le date in precedenza da lui avallate nell'altra opera. Secondo gli storici, l'inghippo verrebbe chiarito se si accetta la figura di Merlino come corrispondente a quella di un bardo gallese di nome Myrddin, di cui si sa che era ancora in vita nel 573 d.C. Il gallese si configurò in lingua solo dopo la scomparsa di Artù e così è impossibile che Myrddin possa essere stato più vecchio del grande, mitico sovrano. L'identificazione fra Merlino e Myrddin, viene ampiamente sottoscritta da Robert Graves nel suo studio mitologico fondamentale intitolato “La dea bianca” (1948) e da Nicolai Tolstoj in “The Quest for Merlin (1985). A essere sinceri, parrebbe un'ipotesi errata, perchè non si riesce a capire come mai, se Merlino si chiamava così, ci si dovesse riferire a lui con un altro nome. (La giustificazione più comune sostiene che fu Goffredo a cambiargli nome, passando da Myrddin a Merlino, perché in francese merde significa "merda" e un mago di nome Myrddin avrebbe fatto ridere in un momento storico in cui l'Inghilterra era governata dalla Francia). Per di più Myrddin non avrebbe in alcun modo potuto conoscere Artù, perché quand'anche le loro vite si fossero incrociate, egli sarebbe stato un bambino all'epoca della morte del condottiero. Per Geoffrey Ashe, Merlino è Myrddin e Goffredo di Monmouth lo ha fatto più vecchio di Artù, anche contro la logica imposta dalla storia, giocando su una licenza narrativa che gli tornava assi utile nell'economia della sua cronaca.Nel suo libro intitolato “Merlino” (1988), la professoressa americana Norma Lorre Goodrich respinge fermamente questa ipotesi, sostenendo che non solo Merlino è davvero esistito, ma che aveva 30 anni in più di Artù, anche se condivide l'idea che alcune avventure relative a Myrddin siano poi state convogliate nella storia della vita di Merlino. Secondo lei il Merlino di Artù era nato in Galles ed era morto in terra di Scozia. Infatti conclude dicendo che "merlino" non era tanto un nome (il merlino è un uccello rapace simile al falco) quanto un titolo e che il vero Merlino altri non era che un vescovo di nome Dubricio, quello stesso che aveva incoronato Artù re dei Britanni. Myrddin, invece, era un "uomo selvatico dei boschi", un poeta impazzito che amava vivere in luoghi sperduti, dotato di poteri magici spiccati. Ed è questo il Merlino di cui si occupa Goffredo di Monmouth nella storia della sua vita, un personaggio diverso da quello che compare nella Historia. Si tratta di un leader dotato di doti profetiche, divenuto pazzo dopo aver combattuto una battaglia contro gli Scoti e da quel momento datosi alla macchia profetizzando eventi futuri. Un aspetto importante del personaggio è la sua vena profetica. Non per nulla, prima della storia della sua vita, Goffredo aveva pubblicato un altro lavoro completamente dedicato alle profezie del grande mago, opera che in seguito aveva fatto convogliare nella successiva narrazione della vita. È come se Goffredo avesse appreso dell'esistenza di Myrddin solo dopo aver scritto la Historia e avesse pertanto deciso in un secondo momento di identificarlo con Merlino. Nicolai Tolstoj concorda con questa ipotesi e dedica la maggior parte del suo libro a tutte quelle leggende e a quelle storie che parlano delle avventure «dell'uomo selvatico dei boschi». Sembrerebbe, dunque, che esistano due teorie fra loro contrastanti: da una parte quella dei due Merlino, suggerita in prima battuta da Giraldo Cambrense; dall'altra quella di un solo Merlino, il cui vero nome era Myrddin, bardo e profeta gallese. Tuttavia sia Goodrich che Tolstoj sostengono le loro teorie in modo così brillante e affascinante che è quasi un peccato optare per l'una piuttosto che per l'altra. A essere sinceri, comunque, la Goodrich ci pare più convincente a proposito della teoria del doppio Merlino e anche nel sostenere che il famoso mago era il primo consigliere di re Artù, sebbene anche Tolstoj abbia parecchio da dire sulla figura di Merlino mago. Per comprendere appieno ciò che Tolstoj scrive, dobbiamo liberarci dalla immagine stereotipata che abbiamo del mago medievale, quella sorta di miscellanea che fonde insieme il Prospero di Shakespeare, il Gandalf di Tolkien, il Merlino, simpatico e amabile, di T.H. White. Sono tutte invenzioni recenti, perché in verità al tempo di Artù un mago era una combinazione fra un prete, uno stregone e uno sciamano. Per avere un quadro credibile di un mago in azione, è utile dare un'occhiata a “A.Pattern of Islands”, il resoconto che l'autore, Arthur Grimble, fa dei suoi anni trascorsi alle Isole Gilbert nel sud del Pacifico. Egli racconta che volendo mangiare della carne di focena si era interessato per sapere dove poterne trovare. Gli era stato detto che sull'isola esistevano ancora gli eredi di coloro che erano considerati i cacciatori di focene. Un parente del suo informatore lo avrebbe condotto presso di loro. E così Grimble era stato invitato al villaggio, dove si stava celebrando una festa. Ad un tratto il capo tribù, un uomo grasso e bonaccione, si era ritirato nella sua tenda e vi era rimasto per alcune ore, mentre tutto intorno era sceso il silenzio. All'improvviso l'uomo era uscito in stato di chiara agitazione, si era gettato a terra e aveva preso a gridare: «Stanno arrivando, stanno arrivando!». All'invito tutta la tribù si era precipitata di corsa verso il mare ed era rimasta in silenziosa attesa. In un attimo le acque si erano popolate di focene che si lasciavano cullare dalle onde. Erano come in uno stato di trance, tanto che i pescatori le traevano a bordo delle loro barche senza che opponessero alcuna resistenza. Giunti a riva le uccidevano senza problemi. È provato che ipnotizzare un animale non è impresa impossibile e già si sa che la tecnica chiama in causa anche la telepatia; ma riuscire a ipnotizzare un intero branco di focene a distanza sembra davvero un po' troppo! Ad ogni buon conto, assurdo o no, il fatto si verificava regolarmente, a dimostrazione che quella gente continuava a possedere antichi poteri che solo pochi uomini erano ancora in grado di governare. Lo studio dei popoli primitivi ha ormai chiaramente dimostrato che i numerosi graffiti dell'Età della Pietra rinvenuti sulle pareti delle caverne in cui si scorge un uomo, uno sciamano, che sembra danzare vestito con pelli di animali, non sono affatto da intendersi come una sorta di arte paleolitica, bensì come la raffigurazione pittorica di speciali rituali magici appositamente inscenati per attirare le prede nelle vicinanze dei cacciatori, né più né meno come avevano fatto i cacciatori di focene davanti agli occhi esterrefatti di Grimble. Nel bel libro “Wizard of the Upper Amazon” scritto da F. Bruce Lamb, si raccontano le esperienze di un peruviano, un certo Manuel Cordova, che rapito da piccolo dagli indiani Amahuaca era cresciuto presso di loro assimilandone la cultura. Lamb testimonia che i cacciatori primitivi di oggi non fanno altro che imitare ciò che i loro antenati preistorici già facevano migliaia di anni or sono. Fra i molti episodi, Cordova racconta come i cacciatori siano soliti ammazzare il capo branco di un gruppo di maiali selvatici e ne sotterrino la testa lungo il sentiero, nella ferma certezza che questo rituale costringerà il branco a ripassare ancora da quel passaggio. In un altro brano dalla drammatica sequenza, Cordova descrive le libagioni rituali, quando gli indigeni si riempiono di “hini xuma”, un liquore allucinogeno che chiamano "estratto della visione", grazie al quale hanno visioni continue di animali come serpenti e uccelli. Ricorda anche che una notte un gigantesco leopardo apparve proprio nel bel mezzo della cerimonia, senza né spaventare né fare del male ad alcuno. Un'altra testimonianza significativa di un uomo che ha trascorso parte della sua vita fra popoli selvaggi, è il bel libro dal titolo “Mitsinari” (1954) di padre André Dupreyat, vissuto a Papua nella Nuova Guinea. Vi si parla dello stregone Isidoro che poteva trasformarsi in un casuario (una specie di grande struzzo) e, in quelle forme, era in grado di raggiungere in sole due ore luoghi montagnosi e lontani, normalmente raggiungibili in non meno di cinque giorni di cammino sostenuto. Il padre narra di alcune disavventure patite con gli stregoni locali, i quali gli avevano mandato il malocchio del serpente. Un potente maleficio che aveva attecchito, tanto è vero che in breve tempo era stato morsicato a più riprese da rettili. (Un fatto strano, se si considera che sono i serpenti i primi a allontanarsi appena vengono disturbati dalla presenza dell'uomo). Ecco perché è sbagliato continuare a immaginare un mago alla stregua di un personaggio di Walt Disney, con un cappello a punta tutto trapuntato di stelline. I veri maghi ricordano molto da vicino i moderni medium spiritici, perché, come loro, sostengono che i poteri giungono grazie all'intervento di spiriti. Molti maghi moderni sono convinti che il potere e la forza per governare gli spiriti siano accessibili solo tramite la celebrazione di rituali, che vanno officiati e consumati con grande attenzione e puntigliosità. Per tradizione, il ruolo riconosciuto di stregoni, uomini-medicina e sciamani è quello di intermediari fra l'essere umano e il mondo spirituale e la loro funzione prioritaria è quella di garantire alla tribù una buona caccia e un ricco raccolto. Anche i sacerdoti Druidi dei Celti appartenevano a questa categoria di maghi. Il druidismo, come sappiamo, era una forma di religione naturalistica, approdata in Britannia attorno al 600 a.C. a seguito delle migrazioni dei Celti. Ma, per essere precisi, molte forme di religione spontanea già esistevano in loco, come per esempio le ritualistiche legate al sito di Stonehenge, un vero e proprio tempio magico, perfettamente allineato in terra con le stelle in cielo. Secondo Nicolai Tolstoj, Merlino può considerarsi "l'ultimo dei Druidi". Il druidismo venne introdotto nel Galles dai Celti, riuscendo a sopravvivere anche per molti secoli dopo che il cristianesimo aveva imposto la sua legge sulle Isole Britanniche. Tolstoy sottolinea che le storie relative a Myrddin - specialmente quelle che contemplano la figura del bardo Taliesin - sono piene zeppe di collegamenti che uniscono magia e druidismo. Ricorda, per esempio, i sacri alberi delle mele (che i Druidi veneravano in boschetti sacri) e i "famigli", gli animali alleati come il maiale o il lupo. Lo accosta al grande dio cornuto della mitologia pagana. Per Tolstoj è la "foresta di Calidon" il luogo che accoglie Merlino ormai impazzito, una macchia boschiva in Scozia, nei pressi di Hart Fell, nel punto in cui nascono i fiumi Annan e Clyde. Sempre stando a Tolstoj, Merlino tenne anche fede alla sua profezia nella quale aveva previsto la sua stessa morte, che sarebbe avvenuta per percosse, impalamento e annegamento. Infatti, dopo essere stato picchiato dai pastori, era scivolato nelle acque del fiume Tweed ed era rimasto infilzato in un palo prima di annegare. Goodrich preferisce abbracciare la storia tradizionale, nella quale Merlino viene ucciso da una donna di nome Ninian o Nimue, la Dama del Lago (chiamata anche Viviana), di cui si era follemente innamorato e alla quale aveva rivelato tutti i suoi segreti di magia. La donna però lo aveva sempre rifiutato e alla fine, tramite un potentissimo incantesimo, lo aveva condannato a restare sepolto vivo in una grotta racchiusa da una grande roccia. Un altro autore segnala che a suo avviso Nimue altri non era che la santa cristiana Nimue e che la storia del suo trionfo finale su Merlino rappresenta in chiave simbolica la vittoria della Chiesa sul paganesimo. Come già ho anticipato, i due bei libri di Nicolai Tolstoj e Norma Lorre Goodrich sono ricchi di storie complesse e intricate, capaci, nel loro formidabile insieme, di lasciare chi legge in una condizione che potremmo definire di "confusione illuminata". Ma alla fine, il quadro che ne viene fuori è quello di un re Artù realmente esistito, uno dei più grandi condottieri dell'epoca medievale, consigliato da un Merlino concreto e vitale, sciamano e druido. I due personaggi lasciarono dietro di loro un'impronta così straordinaria che, sin da subito dopo la loro morte, le avventure della loro vita erano entrate a far parte di una consistente mitologia, via via sempre più ricca. Tanto che la leggenda aveva addirittura superato la realtà, così da non consentire più di discernere fino a che punto le imprese di questi due eroi (vissuti fra il 450 e il 550 d.C.) appartenessero al mondo della realtà o a quello della fantasia. Una cosa però sembra potersi accertare sempre, ogni qual volta si indaga sul loro mistero: essi furono personaggi realmente esistiti.  (misterieleggende.com)

domenica 23 novembre 2008

I nostri sogni son il nostro giardino


I sogni possono realizzarsi solo se li proteggi, li alimenti, come i fiori più delicati del tuo giardino, e quando arriva la tempesta, devi preservarli ancor di più, con amorevoli cure, disserbanti e concimi, e non moriranno, si trasformeranno in quel bel giardino, che solo il tuo cuore può alimentare e ti sorprenderai a sorrider al tuo sogno, che ti respira accanto.Ogni giorno è un miracolo, noi siamo miracolo per chi ci conosce e ci vuol bene!

IL SANTO GRAAL

E’ una delle parole che più attraggono l'attenzione dei lettori di ogni età: in secoli di storia il Graal sembra non aver perso nulla della sua antica potenza. Anzi. Oggi come non mai è al centro di romanzi, saggi di ogni tipo, film e fumetti. Ma cos'è veramente il Graal? Le sue tracce storiche, come le teorie, si perdono nel tempo e nella fantasia. Il termine "graal" inizialmente, in francese antico, deriva probabilmente dal latino medievale “gradalis” e significa calice, vaso, scodella o anche catino. Secondo la tradizione, il Graal è la coppa che Gesù Cristo ha usato nell'ultima cena, la stessa che ha poi raccolto il suo sangue dopo la crocifissione.
Proprio il contatto con il sangue di Gesù, gli avrebbe trasmesso dei grandi poteri così come sarebbe accaduto alla lancia di Longino ed alla Sacra Sindone.

La prima volta
Come però sia nato il vero mito del Graal, questo ancora non si sa. Per certo conosciamo solo l'occasione nella quale il termine è stato usato. Era il 1190, infatti, quando morì lo scrittore francese Chrétien de Troyes. Il suo romanzo incompiuto, il “Perceval, ou le conte du Graal”, citava per la prima volta il Graal. Il giovane Perceval, dopo essere diventato cavaliere alla corte di re Artù, raggiunge il castello del Re Pescatore, dove accanto alla tavola imbandita, vede sfilare dei ragazzi con degli oggetti misteriosi: una lancia insanguinata, due candelabri e il Graal, descritto come una coppa d'oro purissimo incastonata con meravigliose pietre preziose, al cui ingresso si diffonde un gran chiarore. Sarà in seguito un'ostia contenuta nel Graal a tenere in vita il Pescatore ferito, e ad essere il suo unico sostentamento.

Una coppa o una pietra?
È nato così il mito immortale del Graal, anche se è certo che non sia stato Chrétien de Troyes ad inventarlo. Dopo di lui comunque, anche altri hanno scritto della mitica coppa, cambiando però talvolta la sua natura. All'inizio del XIII secolo, il poeta tedesco Wolfram von Eschenbach scrive “Parzival”, un romanzo cortese come quello di Chrétien ma con una sostanziale differenza: il Graal invece di una coppa è una pietra magica, ed è «fonte di ogni bene in terra». Questa trasformazione ha fatto pensare ad un influenza della cultura orientale piuttosto che di quella celtica del precedente romanzo. Inoltre, la nuova natura di pietra assunta dal Graal ha portato a collegamenti ideali sia con la pietra filosofale cara agli alchimisti che con la pietra che, secondo una leggenda, ornava la corona di Lucifero e cadde con lui dal cielo.

Da Giuseppe di Arimatea a re Artù
Dobbiamo a Robert de Boron, invece, il “Joseph d'Arimathie. Le Roman de l'Estone don Graal” composto intorno al 1202. Il Graal compare ora come la coppa usata da Gesù nell'ultima cena. Giuseppe di Arimatea, un mercante suo discepolo, desiderando avere qualcosa appartenuta a Gesù, da conservare come una reliquia, si sarebbe fatto dare la coppa dove aveva bevuto il Messia dal padrone della casa dove si era consumata l'ultima cena. I Vangeli di Matteo, Marco e Luca, ci raccontano che durante l'ultima cena Gesù prese il pane, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli insieme al vino del suo calice, dando inizio così al sacramento dell'Eucarestia. Il giorno seguente, di venerdì, Gesù fu crocifisso. Deposto dalla croce, Giuseppe di Arimatea lo avvolse nel lenzuolo che oggi è la Sacre Sindone, e lo portò in una tomba nuova, che lui stesso aveva fatto costruire. Secondo la leggenda del Graal, durante la preparazione e il lavaggio del corpo prima della sepoltura, Giuseppe vide uscire delle gocce di sangue dal costato di Gesù, proprio dalla ferita che il centurione Longino aveva fatto con la sua lancia, e le raccolse nella coppa servita pochi giorni prima per la consacrazione dell'ultima cena. In seguito Giuseppe di Arimatea partì dalla Palestina in direzione della Britannia per fondare la prima chiesa cristiana, portandosi dietro quello che oggi chiamiamo il Santo Graal.

Versioni discordanti
La storia del Graal, però, non è uguale per tutti. Secondo una parte della tradizione, la mitica coppa restò per alcuni secoli in Inghilterra, fino a quando, nel VI secolo, si decise di trasferirla a Roma. Il sacerdote incaricato di portarla, però, vista l'invasione dei Longobardi, si fermò all'Isola Comacina. Una chiesa costruita in onore del Santo Graal ricorderebbe proprio l'aiuto dato dalla reliquia alla resistenza dell'isola. Da lì il Graal sarebbe stato portato in Val Codera, in uno dei misteriosi luoghi che vengono citati come un suo possibile nascondiglio. Un'altra visione della storia, che unisce tradizione celtica e cristiana, riporta che Gesù, che sarebcr stato in passato con Giuseppe d'Arimetea in Cornovaglia, avesse ricevuto da Merlino un druido converto al cristianesimo, una coppa rituale, la stessa che avrebbe portato con sé per l'ultima cena. Dopo la sua morte, Giuseppe sarebbe tornato in Inghilterra proprio per restituirla, accresciuta dal potere dato dal sangue di Cristo. Il Graal sarebre stato quindi consegnato al Re Pescatore, parente sia di Giuseppe che di Parsifal. Quando, tempo dopo, sulla Britannia si abbattè la "wasteland", una maledizione sia spirituale che materiale, causata da una ferita inflitta al Re Pescatore con la lancia di Longino, del Graal si perse ogni traccia. E’ a questo punto che Merlino invita Artù a ritrovarlo ad ogni costo, perché la sua grazia liberi la Britannia dall'incubo. Parsifal, l'unico cavaliere della Tavola Rotonda degno di trovare il Graal, inizia la sua ricerca, arrivando più volte vicino alla meta, fino a quando non riesce a prendere quello che viene definito "il piatto nel quale Gesù mangiò l'agnello con i discepoli il giorno di Pasqua".

La nascita del mito nei paesi nordici

Prima di diventare un mito cristiano, quello del Graal è stato, anche se in forme diverse, un mito celtico. In Europa si raccontava di vasi, caldaie e coppe dal grande potere, come il Calderone dei Dagda, la "coppa della vita" della civiltà celtica. Il Calderone di Gundestrup può esserne un esempio. La storia del Re Pescatore, di re Artù e ricerca del Graal da parte dei dodici cavalieri della Tavola Rotonda, è il risultato della fusione delle due tradizioni quindi, cristiana e celtica, ed i cavalieri che, come Lancillotto, falliscono la loro missione scontano la propria impurità. Dall'Inghilterra il mito si allarga all'Europa, fino ad arrivare ai nostri giorni. Ma nel frattempo dov'è il Graal? Secondo una fonte sarebbe stato portato nel 540 in Medio Oriente dove sarebbe rimasto nascosto per secoli, fino all'arrivo dei crociati. Quando nei primi anni del Mille i cavalieri cristiani arrivarono in Terra Santa, sentirono per certo parlare del misterioso oggetto dai grandi poteri, ormai patrimonio della tradizione esoterica locale. Furono loro, con molta probabilità, a diffondere di nuovo il mito in Europa una volta tornati in patria. Se poi da quei luoghi lontani hanno riportato solo il racconto o anche il vero Santo Graal, questo non è dato saperlo.

Un forte valore simbolico
In ogni caso, non sarebbe corretto identificare la coppa misteriosa solo con la preziosa reliquia dell'ultima cena. Il Graal, infatti, ha anche un forte valore simbolico ed esoterico. Per gli alchimisti sarebbe uno strumento di conoscenza e di evoluzione spirituale. Secondo Julius Evola, ad esempio, il Graal sarebbe al centro di un rito iniziatico pagano al quale, nel medioevo, la Chiesa si sarebbe opposta. Per René-Guenon il Graal sarebbe giunto nella cristianità provenendo dalla tradizione iniziatica dei druidi e rappresenterebbe il centro del monde esoterico, simbolo della religione primordiale proveniente dal mondo sotterraneo di Agarthi. Più "modernamente", Adolf Hitler lo considerava uno strumento per conquistare il mondo mentre per il grande psicanalista Cari Jung sarebbe in realtà un archetipo dell'inconscio.

Cercando il Graal
Ma dove si troverebbe veramente il Graal? Fa veramente parte del misterioso tesoro dei Cavalieri Templari? Secondo il racconto di un pellegrino inglese del VII secolo, sarebbe custodito in Terra Santa, in una cappella vicino Gerusalemme. Un'altra fonte parla invece del Graal come del piatto dell'ultima cena conservato oggi nella Cattedrale di San Lorenzo a Genova. Si tratta del Sacro Catino, una coppa esagonale in vetro verde che la tradizione vuole sia stata intagliata in uno smeraldo. I genovesi la portarono in patria come trofeo dopo aver conquistato la città di Cesarea, in Palestina, nel 1102. Portata a Parigi da Napoleone Bonaparte, fu riportata in Italia con degli evidenti danni. Restando in Italia, il Graal potrebbe essere custodito a Bari, dove è riportato su un bassorilievo della cattedrale, e a Torino, indicato con gli occhi da una statua della Chiesa della Gran Madre. Il Graal è stato identificato anche nel Santo Calice, una coppa di agata montata su una base medievale in oro, perle e pietre preziose, che si trova nella cattedrale di Valencia. Secondo la leggenda sarebbe stato portato a Roma da San Pietro e da lì il diacono Lorenzo l'avrebbe portata nella città spagnola. Un'altra versione della storia chiama in causa i cavalieri Teutonici, nati nel 1190, che avrebbero affidato il Graal, ricevuto a loro volta dai mistici Sufi, all'imperatore Federico II perché lo salvasse durante le crociate. Questo spiegherebbe l'edificazione dell'enigmatico edificio di Castel del Monte fatto costruire dall'Imperatore, la cui vera funzione resta ancora oggi misteriosa.

In Europa e oltre oceano

Un altro nascondiglio del Graal potrebbe essere il Castello di Gisors, in Francia, dove l'avrebbero portato i Templari, custodi della preziosa reliquia dalla fine del XII secolo, da quando l'avrebbero ricevuto dalla "setta degli assassini", gli adoratori di Bafometto, che per alcuni non era altro che il Graal. Sempre in Francia, ci sono altri due posti nei quali si parla del Graal: il Castello di Montsegur, ulama preziosa roccaforte dei Catari, e la chiesetta di Rennes le Chateau, famosa per le vicende che hanno avuto come protagonista l'abate Saunière. Tornando in Gran Bretagna, come nascondiglio segreto del Graal si ipotizza la cappella di Rosslyn, in Scozia, stranamente piena di riferimenti templari pur essendo stata edificata dopo lo scioglimento dell'ordine. Più a sud, invece, a Glastonbury, nel Somerset, in quella che viene indicata come la leggendaria Avalon e dove nel 1191, durante la terza crociata, sono state scoperte le tombe della regina Ginevra e di re Artù, si trova il Chalice Well, il pozzo nel quale, secondo la tradizione, Giuseppe di Arimatea avrebbe gettato il Graal. Una leggenda alimentata anche dallo strano sapore metallico dell'acqua del posto. Il mito del Graal ha varcato anche l'oceano, arrivando a Oak Island negli Stati Uniti, dove sarebbe nascosto sul fondo di un pozzo canadese, un vero mistero che ha appassionato ricercatori da tutto il mondo ma che ancora non sembra voler svelare i suoi segreti. Proprio come il vero Santo Graal.

"Sang Real".. Santo Graal

Per la maggior parte degli appassionati il Graal è da ricercare nei luoghi più disparati della Terra. Non solo. Per molti non sarebbe ancora chiaro neanche il suo vero aspetto. Si va infatti dalla coppa e da un catino, ad una pietra caduta dal cielo, dall'Arca dell'Alleanza ad un misterioso libro scritto da Gesù, dalla Sacra Sindone di Torino alla pietra centrale della corona di Lucifero. Tre scrittori popolari inglesi, Henry Lincoln, Richard Leigh e Michael Baigent nel loro “The Holi Blood and the Holy Grail” del 1982, hanno ipotizzato un'ulteriore versione. Secondo loro, infatti, i Graal non sarebbe un oggetto materiale, ma la linea di sangue dei discendenti di Gesù Cristo. In sintesi, affermano che Gesù avrebbe lasciato la Palestina con Maria Maddalena e che da lei avrebbe avuto dei figli, dai quali avrebbe poi avuto origine, in Francia, la dinastia reale dei Merovingi. Il Graal, quindi, sarebbe stata la stessa Maddalena, vero "contenitore" del sangue di Cristo. Un "sang real", sangue reale, che continuerebbe a scorrere anche oggi nelle vene dei misteriosi discendenti di Gesù, sotto protezione del fantomatico Priorato di Sion. Una teoria, questa, che oltre a numerose critiche ha dato vita anche al romanzo di Dan Brown, il codice da Vinci, successo letterario senza precedenti.  (misterieleggende.com)

sabato 22 novembre 2008

Qual'è il segreto del vostro matrimonio?

(comune.venezia.it)

Per qualcuno la nostra vita è simbiontica
e andrebbe vissuta più distaccata e indipendente,
ma chi va oltre le apparenze si accorge delle nostre singolarità,
del nostro completarci, ma non soffocarci, collaborare, mantenendo i nostri spazi.
Due menti, un unico cuore ed un cammino, mano nella mano,
in questra strada piena di dossi, insidie,
ma anche di piccoli grandi miracoli di ogni giorno,
che condividiamo e ci arricchiscono l'anima.
Non ci sono segreti... siamo!

TRIANGOLO DELLE BERMUDE

Il 5 dicembre del 1945 cinque Avengers, aerei bombardieri, si alzavano in volo dalla base di Fort Lauderdale, in Florida, per un normale giro di perlustrazione e controllo sull'Atlantico. La flotta 19 era comandata dal responsabile Charles Taylor. Gli altri quattro piloti erano reclute in allenamento.
Si accingevano a compiere quello che in gergo è detto "volo di routine", ossia un'attività del tutto sicura, utile soprattutto a far maturare qualche ora di volo in più senza istruttore al fianco.
Attorno alle 2,15 gli aerei si trovavano già in pieno oceano, seguendo la rotta standard, il tempo era caldo e il cielo limpido. Alle 3,45 la torre di controllo riceve un messaggio da Taylor: «Siamo in emergenza.
Crediamo di esserci persi. Non si vede più terra... ripeto... non riusciamo più a scorgere la terra».
«Qual’ è la vostra posizione?»
«Non siamo certi della posizione. Non sappiamo dove ci troviamo. Ripeto, ci siamo persi».
«Puntate verso ovest», suggeriscono dalla torre.
«Non sappiamo quale sia la direzione ovest. Tutto sembra fuori posto... strano. Non siamo più sicuri di niente. Persino l'oceano non sembra quello che dovrebbe essere».
Alla torre di controllo cresce lo sconcerto. Quand'anche una tempesta magnetica avesse messo fuori uso gli strumenti, i piloti avrebbero comunque potuto orientarsi osservando il Sole basso nel cielo a occidente. A questo punto il contatto radio peggiora e i messaggi si riducono a brevi frasi. Tra gli altri, si registra la conversazione spasmodica fra due piloti. Uno grida che tutta la sua strumentazione di bordo è andata in tilt. Alle 4 in punto Taylor decide di passare il comando a un altro pilota. Ma anche lui alle 4,25 dichiara: «Non sappiamo dove ci troviamo».
La situazione, frattanto, si fa drammatica. Se gli aerei non dovessero rientrare o toccare terra entro le successive quattro ore, la mancanza di carburante li costringerebbe ad ammarare. Alle 6,27 parte una missione di soccorso. In volo si alza un gigantesco Martin Mariner, con a bordo un equipaggio di tredici persone. L'aereo si mette sulle tracce degli Avengers, seguendo l'ultima rotta segnalata. Dopo ventitré minuti il cielo verso oriente viene improvvisamente illuminato da un lampo color arancio brillante. Da quel momento dei velivoli, Mariner compreso, non si ha più alcuna notizia. Sono come svaniti nel nulla. Proprio come è accaduto a navi e altri aerei in quella stessa area, poi tristemente nota come "Triangolo del diavolo" o "Triangolo delle Bermuda". Quello che accadde agli aerei scomparsi non riteniamo sia un mistero. Nel corso del pomeriggio il tempo si era fatto brutto e le navi in mare avevano segnalato «forti venti e mare in tempesta». La squadriglia 19 e il Mariner, finito il carburante, erano stati costretti a scendere in mare inabissandosi. Il vero mistero, dunque, era un altro: perché era accaduto? Perché i piloti avevano perso la tramontana e ogni elementare senso di orientamento? Anche se la strumentazione di bordo aveva smesso di funzionare e anche se la visibilità era scesa a poche decine di metri, persino un pilota alle prime armi si sarebbe portato al di sopra dello strato di nubi procedendo con piena tranquillità. Ma ciò che suona ancora più strano è il fatto che un simile evento avrebbe dovuto mettere sul chi vive le autorità militari, avvertendo che qualcosa di veramente pericoloso incombeva su quella striscia di mare fra la Florida e le Bahamas, una folta catena di isole a poco meno di 100 km dalla costa. Invece non avvenne nulla, non squillò nessun campanello d'allarme. Venne proposta la solita soluzione: l'incidente era stato provocato dalla somma di alcuni elementi negativi: cattivo tempo, interferenze elettriche nelle bussole di riferimento, inesperienza dei piloti, il fatto che il loro comandante, Charles Taylor, era stato soltanto da poco assegnato alla base e non conosceva i luoghi. Spiegazioni analoghe saranno poi utilizzate nei vent'anni a venire per spiegare alcune tragedie simili: la scomparsa nel 1947 di una superfortezza volante, quella di un Tudor IV nel gennaio del 1948, di un DC3 nel dicembre dello stesso anno, un altro Tudor IV nei 1949, un Globeinaster nel 1950, uno York inglese da trasporto nel 1952, un Super Constellation della Marina nel 1954, un altro Martin nel 1956, un aereo cisterna dell'Air Force nel 1962, due Stratotankers nel 1963, un magazzino volante nel 1965, un cargo civile nel 1966, un altro cargo nel 1967 e un altro ancora nel 1973... per un numero di dispersi superiore alle 200 unità. Cosa abbastanza singolare, il primo a rendersi conto della straordinarietà di tutti questi fatti messi insieme non fu un militare, ma un giornalista, Vincent Gaddis. Nel febbraio del 1964 il suo articolo intitolato “Morte nel Triangolo delle Bermuda” compare sulle pagine della rivista «Argosy», battezzando il mistero col nome che oggi è a tutti ben noto. Un anno dopo, in un libro completamente dedicato al problema, dal titolo “Triangolo maledetto e altri misteri del mare”, Gaddis riprende il pezzo inserendolo nel capitolo “Il Triangolo della morte”. Viene elencato un gran numero di navi che sono scomparse in questa fascia di oceano, a partire dalla Rosalie, svanita nel nulla nel 1840, per arrivare allo yacht Connemara IV nel 1956. Nella chiusa del capitolo, Gaddis entra a pie pari nel regno della fantascienza e si butta sulla speculazione di un «continuom spazio-temporale che avvolge il nostro mondo, compenetrandolo completamente», suggerendo che forse le navi e gli aerei sono spariti penetrando in una sorta di buco cosmico che introduce alla quarta dimensione. Qualche tempo dopo la pubblicazione del libro, Gaddis riceve una lettera da parte di un certo Gerald Hawkes, il quale gli racconta una sua esperienza nel Triangolo delle Bermuda consumatasi nell'aprile del 1952. Durante un volo dall'aeroporto attuale Kennedy, a Gran Bermuda, all'improvviso l'aereo era precipitato per oltre 60 m. Non si era trattato di un vuoto d'aria, bensì l'impressione era stata quella di scendere come a bordo di un ascensore. Poi il piccolo aereo aveva ripreso quota. «Era stato come se un gigante si fosse divertito ad afferrare l'aereo e a farlo scendere e salire come un giocattolo” mentre le ali sembravano sbattere, proprio come quelle di un uccello. Il capitano, visibilmente sconcertato, aveva rivelato ai passeggeri di non riuscire più a scorgere Gran Bermuda e che l'operatore radio stava da qualche momento tentando inutilmente di mettersi in contatto sia con la Florida che con Gran Bermuda. Finalmente, dopo un'ora, il velivolo era entrato in comunicazione con una nave che, fungendo da punto di riferimento, l'aveva guidato fino a destinazione. Scesi dall'aereo, tutti avevano potuto notare la limpidezza del cielo notturno, una splendida serata senza vento. La lettera di Hawkes finiva con una osservazione affascinante: «Forse l'aereo era stato inghiottito in un luogo dove tempo e spazio non esistevano». Ora, sappiamo tutti che l'ingresso di un aereo in un vuoto d'aria, con un repentino mutamento delle condizioni della pressione, può provocare una improvvisa precipitazione per mancanza di sostegno e che violente turbolenze d'aria inducono nelle ali fenomeni vibrazionali così forti da dare l'impressione che sbattano come quelle di un uccello; ma ciò che in questo caso più di ogni altro fatto resta un mistero è il totale blackout radio. E’ la stessa singolare anomalia che stupisce coloro che si avvicinano allo studio degli UFO, i cosiddetti dischi volanti, a proposito dei quali sono state proposte infinite ipotesi sin dal loro apparire, vale a dire da quando nel giugno del 1947 il pilota civile Kenneth Arnold affermò di aver osservato nove '"piatti volanti" mentre si trovava in quota sul Monte Rainier, nello stato di Washington. Alcuni ufologi sostengono che la superficie della Terra non è uniforme come pare, bensì punteggiata da strani "vortici", mulinelli energetici, dove gravità e magnetismo planetario sono inspiegabilmente meno consistenti. Si tratterebbe, in definitiva, di una specie di finestre, punti di luoghi particolari del pianeta, che ipotetici extraterrestri potrebbero sfruttare come zone di prelievo per esemplari di esseri umani destinati allo studio sistematico sul loro lontano pianeta di provenienza... Per Ivan T. Sanderson, amico di Gaddis e noto studioso di fenomeni stravaganti, questa ipotesi è davvero un po' troppo spinta nel regno della fantasia. Da buon scienziato rigoroso, Sanderson ha affrontato il problema disegnando una cartina del mondo su cui evidenziare le aree teatro di scomparse inspiegabili. Ha così scoperto, per esempio, l'esistenza di un altro "Triangolo del diavolo" a sud dell'isola giapponese di Honshu, dove navi e aerei spariscono con regolarità. Dall'altro capo del mondo, un giornalista locale lo ha informato in merito a una strana esperienza personale da lui vissuta durante un volo verso Guani, nell'oceano Pacifico. Con il suo vecchio aereo da diporto era riuscito a coprire in un'ora e in totale assenza di venti un numero di chilometri pari quasi al doppio di quelli consentiti mediamente e, guarda caso, stava proprio sorvolando un'area "pericolosa" nella quale da anni si registravano sparizioni improvvise. Riportando queste zone critiche sulla carta del mondo, Sanderson si è accorto che presentano una superficie a losanga e che queste losanghe sembrano abbracciare il pianeta secondo una configurazione chiara, disposta su due strisce ad anello, rispettivamente collocate a 30° nord e 40° sud rispetto alla linea equatoriale. In questa fascia Sanderson ha contato almeno 72 zone singolari. Il vulcanologo George Rome sostiene che i fenomeni tellurici scaturiscono tutti a un preciso livello al di sotto della crosta terrestre, mentre la direzione e il verso della loro attività sarebbe determinata da movimenti di rotazione registrati attorno al nucleo centrale del pianeta. Ebbene, la collocazione grafica di questi nuclei sismici operata da Rouse, corrisponde in modo pressoché perfetto alle losanghe individuate da Sanderson. Forte di questa annotazione e come sempre animato da uno spirito indagatore prettamente scientifico, Sanderson è così giunto alla conclusione che giustificare le enigmatiche sparizioni con ipotesi fantasiose non funziona, nel momento in cui le discontinuità della superficie terrestre messe in risalto dalla ricerca sua e da quella di Rouse - i mulinelli energetici di cui si è detto - potrebbero benissimo costituire una causa prima scientificamente accettabile. La teoria proposta da Sanderson è comparsa in un suo libro del 1970 intitolalo “UFO: visitatori dal cosmo”. Tre anni dopo è toccato alla giornalista Adi-Kent Thomas Jeffrey raccogliere in un lungo elenco, pubblicato da una piccola casa editrice della Pennsylvania, tutta la casistica collegata al Triangolo delle Bermuda. Ma, purtroppo per lei, la giovane cronista non ha avuto fortuna nella scelta del tempo, poiché pochi mesi dopo usciva il grande successo di un altro noto autore. Parliamo di Charles Berlitz, pronipote del fondatore della celeberrima scuola di lingue, il quale pubblicava per i tipi di una grande casa editrice come la Doubleday, un rapporto dettagliato e al tempo stesso avvincente di ciò che era accaduto e stava accadendo nel famigerato Triangolo della morte. Il successo fu pieno e completo e in un attimo il libro era balzato in vetta a tutte le classifiche di vendita. Erano passati vent'anni dalla scomparsa della squadriglia 19 e dieci da quando Vincent Gaddis aveva inventato la formula "Triangolo delle Bermuda". Berlitz è stato però il primo autore a riuscire ad imporre il fenomeno all'attenzione del mondo. Uno dei molteplici motivi del successo lo si deve al fatto che Berlitz non ha esitato a lanciarsi in speculazioni fantasiose che hanno come protagonisti alieni, vuoti temporali, UFO, carri degli dèi e altro ancora. Fra le ipotesi più straordinarie, Berlitz mette in pista anche quella legata al pioniere della ufologia, il professor Morris K. Jessup, morto in circostanze per lo meno misteriose, dopo aver approfondito troppo un argomento tabù, conosciuto agli addetti al lavori come "Esperimento Filadelfia". Si tratta di un esperimento scientifico che si mormora abbia avuto luogo nel 1943 a Filadelfia, nel corso di alcuni test attivati dalla Marina militare americana al fine di mettere a punto un dispositivo in grado di circondare una nave con un potente campo magnetico. Stando ai testimoni sentiti da Jessup, ad un certo momento una strana luce verdastra aveva investito la nave, i cui contorni si erano fatti via via incerti e tremolanti, poi la grande massa era sparita, ma solo per ricomparire nel porto di Norfolk, in Virginia, a oltre 450 km di distanza. Molti componenti l'equipaggio morirono; altri impazzirono. Stando a quanto affermava Jessup, non appena si era gettato anima e corpo in questa ricerca, era stato contattato da agenti della Marina militare, i quali gli avevano proposto di investigare con loro su progetti analoghi, ma lui aveva rifiutato. Nel 1959 Morris venne trovato morto nell'abitacolo della sua automobile, ucciso dai gas di scarico. Secondo Berlitz, il professore era stato indulto al silenzio, per non correre il rischio che spifferasse tutto ciò che già era venuto a conoscere sull'Esperimento Filadelfia. Ma, vi chiederete, che cosa c'entra tutto questo con il tema del Triangolo delle Bermude? Semplice: nell'esperimento si tentava di realizzare un vortice magnetico del tutto simile a quelli ipotizzati da Sanderson, un mulinello in grado di far compiere all'oggetto (in questo caso una nave) un salto spazio-temporale e tele trasportarlo a centinaia di chilometri di distanza. In modo alquanto strano, questa immaginazione teorica ebbe il potere di mandare gli scettici su tutte le furie. Come in un'esplosione improvvisa, incominciarono a uscire libri, articoli e programmi televisivi animati dall'unico scopo di smontare il caso Bermuda. In tutti, la strategia adottata era quella del buon senso comune, quella stessa messa in atto sin dal 1945 dalle autorità militari e politiche: le sparizioni misteriose erano dovute, molto semplicemente, a cause naturali e, in modo particolare, a tempeste improvvise. Di certo non si può negare che per alcuni eventi questa sia davvero la soluzione migliore; ma se solo ci prendiamo la briga di dare una scorsa agli elenchi di navi e aerei spariti nel nulla, considerando che nella maggior parte dei casi non si è ritrovato il corpo delle vittime e neppure un rottame, ebbene, a questo punto, mettersi in sospetto è il minimo che una mente razionale deve fare. Ci chiediamo: ma non esiste un'ipotesi capace di conciliare il necessario buon senso comune con qualche guizzo intuitivo in grado di rendere ragione di tutta questa allarmante fenomenologia? Chi potrebbe aiutarci meglio di coloro che, chissà come e perché, sono riusciti a sfuggire alla maledizione del Triangolo? Proviamo. Nel novembre del 1964 il pilota di un volo charter, Chuck Wakely, stava facendo ritorno da Nassau a Miami, in Florida, volando a una quota di circa 2500 m. Ad un tratto aveva notato un globo luminoso danzare attorno alle ali, ma non ci aveva fatto caso, ritenendolo un abbaglio. Di colpo, il globo si era fatto sempre più grosso e la sua ingombrante presenza aveva mandato in tilt l'apparecchiatura automatica di bordo, tanto da costringerlo a ricorrere ai comandi manuali. Poi il globo era diventato così brillante da abbagliarlo. Per fortuna, la luminosità si era quasi subito affievolita e la funzionalità degli strumenti di pilotaggio si era riattivata. In un chiaro pomeriggio del 1966 il capitano Don Henry stava tranquillamente guidando il suo rimorchiatore da Puerto Rico a Fort Lauderdale, quando era stato chiamato sul ponte dalla voce concitata di un marinaio. La bussola di bordo era come impazzita e ruotava al contrario. D'un tratto era scesa una strana penombra e l'orizzonte era scomparso. «Sembrava che l'acqua fosse ovunque, in tutte le direzioni». La corrente elettrica era venuta meno, anche se il generatore aveva continuato a funzionare. Quello di emergenza era bloccato. Il rimorchiatore venne inghiottito da una coltre di nebbia, spessa e scura. Dopo qualche momento di terrore, i motori avevano ripreso da soli a funzionare e l'imbarcazione si era ritrovata miracolosamente fuori da quella atmosfera irreale e minacciosa. La spessa nebbia era concentrata in un unico banco, dove anche il mare era più agitato. Tutto attorno a questa "isola'' il clima era buono e le acque calmissime. Per quel che ne sapeva, il capitano Henry testimoniò che la bussola impazzita si comportava come quando gli capitava di risalire il fiume San Lorenzo a Kingston, dove i massicci depositi ferrosi alteravano completamente il comportamento dell'ago magnetico. Come sappiamo, il nostro pianeta (anche se nessuno è in grado di dire perché) è un gigantesco magnete, con le linee di forza che lo percorrono secondo traiettorie imprevedibili ma certe. Sono queste le vie che uccelli e animali percorrono quando l'istinto li spinge a '"tornare a casa"; sono sempre queste le energie che sollecitano la bacchetta del rabdomante a flettersi e vibrare. Ma esistono luoghi sulla Terra dove anche gli uccelli migratori sono sconcertati e perdono l'orientamento, perché succede qualcosa di anomalo, come, per esempio, la creazione dei misteriosi mulinelli o vortici energetici magnetici di cui si è detto. Nel 1930 in un trafiletto comparso sul «Marine Observer» si segnalava la presenza di una forte alterazione magnetica nei pressi del vulcano Tambura, a Sumbawa, a causa della quale le bussole di bordo impazzivano impedendo ai naviganti di seguire le rotte prestabilite. Nel 1932 il capitano Scutt della Australia, nelle vicinanze di Freemantle, ebbe modo di constatare uno sconvolgimento magnetico tanto forte da alterare di 12° la linea di rotta della nave. Ma il collezionista principe di queste notizie è il ricercatore William Corliss, autore di due libri interessanti. Dobbiamo proprio a Corliss lo spunto per la ricerca che ci ha condotto al caso del dottor Laurier di Ottawa, il quale mentre nel 1974 stava monitorando gli spostamenti delle grandi banchise ghiacciate del nord del Canada, si era imbattuto in una zona di anomalia magnetica lunga la bellezza di 60 km, fenomeno che egli valutò scaturire da qualche misteriosa energia posta circa 25 km sotto la superficie. Secondo Laurier questo genere di eventi nasce dallo scontro sotto la crosta di placche tettoniche che collidono: quelle stesse manifestazioni geologiche che provocano i terremoti. Il nodo centrale che emerge da tutto quanto si è fin qui detto, è che in realtà il nostro pianeta non si comporta affatto come una normale calamità, caratterizzata da un campo simmetrico e preciso, ma la sua superficie è come costellala da "buchi", vuoti e anomalie. Come già si è detto, gli scienziati non hanno ancora capito come mai la Terra possegga un campo magnetico, anche se è prevalente l'ipotesi che ciò sia dovuto al suo nucleo centrale magmatico ferroso. Questo continuo movimento produce scivolamenti e slittamenti nel campo magnetico planetario e fenomeni di esplosione di attività magnetica, in tutto comparabile a quella, ben più gigantesca, tipica del Sole. Se queste attività sono in qualche modo da collegarsi alle zone di tensione della crosta terrestre e quindi ai terremoti, diventa plausibile immaginare abbiano collocazioni preferenziali, proprio come accade per le aree sismiche. Ma quali effetti potrebbe generare un "terremoto" di improvvisa attività magnetica? Per esempio, un comportamento anomalo della bussola; perché sarebbe come se dal centro della Terra risalisse una meteora dal potente nucleo magnetico. Turbolenze violente sulle acque del mare, perché agirebbero le stesse forze di perturbazione tipiche delle maree lunari, solo che, in questo caso, il fenomeno sarebbe del tutto irregolare, sopraggiungendo da ogni direzione. Nel vortice magnetico venutosi a creare, nuvolaglia e nebbia tenderebbero a concentrarsi, dando origine a un banco spesso e fitto, impenetrabile. Le strumentazioni elettroniche verrebbero certamente messe in crisi, se non completamente fuori uso... Questa grande quantità di dati e considerazioni spiega perché le cosiddette ipotesi semplicistiche - quelle che invocano cause naturali e etichettano il caso Bermuda come mera invenzione giornalistica - non siano soltanto superficiali, ma deleterie. Esse, infatti, scoraggiano ulteriori indagini su quello che potrebbe essere uno dei più affascinanti rebus scientifici del nostro tempo. Con i tanti satelliti artificiali che gravitano tutt'attorno alla Terra, solo volendo, oggi saremmo in grado di osservare le esplosioni di attività magnetica con la stessa puntuale precisione con cui vengono segnalati terremoti e movimenti della superficie. Potremmo valutarne intensità e frequenza al punto da poterle prevedere. Il risultato non sarebbe solo quello di dare soluzione a un pur grande mistero, ma anche di evitare che in futuro si verifichino tante altre tragedie come quella della sparizione della squadriglia 19.(misterieleggende.com)